Una dichiarata e precisa proposta di metodo è stata la lezione di Raimonda Riccini, L’artefatto al centro. Il tema è quello della storia e della/e teoria/e del design: dato un legame non disconoscibile fra storia e teoria, questo si spiega non solo e non tanto nel senso che non c’è l’una senza l’altra ma soprattutto nel senso che la storia aiuta a capire quale sia l’oggetto della teoria. Proporre allora una metodologia di indagine storica significa aprire a inedite ed eloquenti analisi della complessità del design e degli artefatti, quindi a differenti teorie su di essi. Significa prendere le distanze da come fino a oggi si è “raccontato” e teorizzato il design, da modalità che ormai esibiscono tutti i loro limiti e oltre le quali si affacciano contributi altri, come quello appunto proposto da Riccini che nello specifico si giova delle acquisizioni della storia della tecnologia e dell’innovazione.
Ora, se per esempio la storia dell’arte, pur per bocca di ben distinti interpreti (si pensi, citare due estremi, a Erwin Panofsky e Arnold Hauser), conosce il proprio oggetto, per la storia e la teoria del design l’oggetto resta ancora da precisare. Si rende allora necessaria primariamente una ricognizione su quel che è stata la storia/storiografia in questo settore e quindi una indicazione di prospettiva. Per il primo punto si possono individuare tre fasi:
1. Fase predisciplinare, connotata da due proposte storiografiche opposte che hanno a lungo conformato gli studi successivi, ovvero Nikolaus Pevsner (Pioneers of Modern Design [1936], si veda la recente edizione Yale University Press 2005, che con i suoi “pionieri” ha posto l’accento sugli aspetti individuali, sugli autori degli artefatti, e Siegfried Giedion (Mechanization Takes Command, 1948, trad. it. L’era della meccanizzazione, 1967; si veda la recensione in “The Art Bulletin”), con la sua indagine sulla meccanizzazione degli oggetti come transizione dall’antico al moderno, in cui emerge il tema del design “anonimo”, per cui conta non tanto il singolo autore ma l’oggetto stesso. Si tratta di fase predisciplinare perché ancora non si parla propriamente di “design” e i due autori sono cresciuti ancora nell’alveo della storia dell’arte, all’interno di una tradizione “vasariana” della storia (in cui ha rilievo il nesso opera-autore).
2. Fondazione disciplinare, ovvero la fase in cui, dopo la seconda guerra mondiale e con il definitivo affermarsi della produzione di massa, si precisano alcune tematiche e a livello internazionale si cominciano a costruire storie, storiografie che riguardano lo specifico tema del design, pur ancora non libere dalla precedente tradizione; per fare dei nomi, da Adrian Forty (Objects of Desire. Design and Society Since 1750) a Renato De Fusco (Storia del design). Si tratta di un trentennio in cui vengono costruiti metodologie, pezzi di storia, ma sempre conservando un ruolo rilevante alla figura dell’autore. Accanto a queste storie che certamente hanno aiutato a definire l’oggetto dello studio, sono comparse inoltre le prime sintesi teoriche (Tomás Maldonado, Gillo Dorfles, Vittorio Gregotti, che è stato fra i primi a spostare l’attenzione dall’autorialità alla cultura dell’industria, fino a Maurizio Vitta ecc.).
3. Consolidamento disciplinare, la fase attuale, in fieri, in cui non solo si sono precisati gli studi sul design (si possono nominare Sergio Polano, Alberto Bassi, fra altri) ma gli artefatti sono ormai divenuti oggetto di varie discipline e il design è riconosciuto anche da altre storie come fattore di rilievo. Per questo si veda come esemplificativo il libro di Wiebe E. Bijker, La bicicletta e altre innovazioni (1998) là dove parla della bachelite e dedica un capitolo al ruolo dei designer in rapporto alla valorizzazione di quello che è stato il primo materiale totalmente sintetico, segnalando quindi come il designer sia divenuto uno degli attori di rilievo del “sistema sociotecnico”.
Proprio quest’ultima nozione, è al centro del modello di indagine proposto da Riccini, una metodologia per avvicinarsi all’oggetto della teoria del design che si giova degli sviluppi della storia della tecnologia e dell’innovazione (per un panorama della disciplina si è suggerito di esplorare Patrice Flichy). Variamente usata in diversi ambiti, ma precisata dagli studi di Thomas P. Hughes sulla nascita del sistema elettrico americano, la nozione di sistema sociotecnico implica che nella (e nel ricostruire la) storia della innovazione tecnica, di un sistema, non si danno soggetti singoli o corridoi tecnologici singoli che possano essere percorsi in maniera lineare, tappa dopo tappa con un approccio deterministico e internalista, bensì esistono differenti soggetti, attori ed elementi sociali e non solo tecnici, di cui devono essere intese e messe in luce le relazioni e la dinamica, con un continuo passare dall’uno all’altro. Un approccio che si distingue da quello di matrice invece ottocentesca, costruito sull’idea di un progresso lineare tutto interno alla tecnica e che, al di là dell’enfasi in alcuni casi posta piuttosto sul versante sociale (per esempio Bruno Latour), si offre come interessante modello specialmente per una disciplina, e una pratica, quale il design laddove “progettare la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto […] fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi)” (International Council of Societies of Industrial Design).
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